Lettera a un’amica – ovvero un modo come un altro per pubblicare un aggiornamento…

Sono passate settimane, forse mesi dall’ultima volta in cui ho scritto di me su questo blog. Avevo un sacco di cose da dire, in realtà, ma poco tempo e soprattutto poca voglia di farlo. Sono stata travolta dal mio stesso mercuriale iperattivismo compensato da un silenzio quasi maniacale, unica barriera contro una deflagrazione di dolore che avvertivo come imminente. Ho ingoiato lacrime, insieme alla fatica fisica, sperando che aprire scatoloni sarebbe stato catartico e salvifico. Invece mi son scoperta come ferma allo stesso punto in cui ero mesi fa. Certo pareti e mobilia hanno una diversa disposizione,  gli interruttori della luce sfuggono al mio contatto – ancora non ho ben capito perché -, il panorama che fa capolino dalle finestre non è lo stesso di prima e le strade che percorro ogni giorno non mi sono ancora familiari al punto da poterle percorrere a occhi chiusi, ma il vuoto è rimasto identico a se stesso, come se il panorama intorno non avesse influenza alcuna sulla desolazione che mi porto dentro.

Le persone, quelle poche che avevo intorno, son sparite quasi tutte, ‘ché ormai l’emergenza pareva superata quindi potevano tornare alla loro esistenza (potrei citare clamorosi casi di miopia emotiva, tipo quello di una persona che ha passato una domenica sera a parlarmi dei propri problemi senza minimamente notare che avevo il trucco completamente sfatto e le guance macchiate di rimmel). Si dà però il caso di rare, commoventi eccezioni tra le quali spicca senz’altro piccolaS che con un affetto delicato e pieno di discrezione mi ha più volte scaldato il cuore, molto più di quanto lei stessa sappia visto che ho ricambiato ogni suo gesto con un ostinato silenzio che solo ieri ho deciso di spiegare inviandole la lettera che riporto qui sotto, a mo’ di aggiornamento per quanti – bontà loro – trovandosi di fronte a post contenenti solo citazioni più o meno banali si siano chiesti che fine avesse fatto la persona che aveva aperto un blog per potersi sfogare ed era poi sparita nel nulla…

«Pare che le persone alle quali è stato amputato un arto continuino a sentirne la presenza, come se quella parte di loro non fosse mai stata tagliata via. Ecco, è così che mi sento – come se mi avessero tolto una parte di me che continua tuttavia a essere presente come se fosse ancora al suo posto. Una cosa che ho imparato in questi lunghi mesi durante i quali ho vissuto come se fossi un automa, è che la gente non sa gestire le sofferenze altrui. Nel migliore dei casi quando alla domanda “come va?” rispondi che insomma non è che vada un granché, l’interrogante fa finta di nulla, come se la risposta fosse stata diversa, come se di fronte avesse l’immagine stessa della serenità. Ci sono poi quelli che, per superare l’imbarazzo di una situazione che non sanno come affrontare, ti regalano tutta una serie di luoghi comuni che vanno dal “massì vedrai che poi passa”, fingendo di sapere quale sia la cosa destinata a passare, al “beh però hai un bell’aspetto” anche se magari hai delle occhiaie con le quali si potrebbe mettere insieme un intero set di valigie. I miei preferiti restano comunque quelli che una volta scoperto lo stato di malessere dell’interlocutore iniziano l’elenco delle proprie disgrazie, come se potesse esistere una graduatoria del dolore, una classifica delle sofferenze, un vincitore nella categoria ‘ferite aperte’. A questi vorrei spiegare che no, non esiste nulla di tutto questo, e che ciascuno si porta la propria – di croce – e che il voler a tutti costi primeggiare in questa particolare quanto assurda gara non ha senso alcuno perché se c’è una cosa che si può o, forse meglio, si dovrebbe imparare dagli intoppi piccoli o grandi che la vita ci costringe ad affrontare è il rispetto del sentire altrui. Non pretendo che si arrivi a sviluppare una particolare empatia, dacché ogni caso è storia a parte e solo chi ne è direttamente coinvolto può sapere quanto profondo sia il segno lasciato dalle esperienze negative, ma una forma di compassione nell’accezione più nobile del termine sarebbe quanto meno auspicabile. Sulla mia strada non ne ho incontrate molte di persone in grado di stare anche solo a sentire ciò che avevo da raccontare, e così ho finito con lo sviluppare la malsana convinzione di essermi classificata all’ultimo posto e di aver quindi perduto qualunque diritto, non solo alla lamentazione ma persino alla sofferenza. Peccato che la mente non riesca a farla sparire, la sofferenza, che anzi – se nascosta al mondo, se negata come qualcosa di cui doversi vergognare – continua ad agire come fuoco sotto la cenere fino a quando la cenere non si esaurisce e le fiamme iniziano a divampare ormai fuori controllo. Ho passato gli ultimi mesi a far finta di credere che sarebbe andato tutto bene, che il tempo avrebbe guarito le ferite, che il cambio di casa avrebbe risolto i problemi e fatto sparire i fantasmi finché, mentre ero ancora alle prese con scatoloni e cose sparse in anfratti polverosi, non mi sono trovata a fare i conti con quello che non avevo affrontato fino a quel momento, senza avere né la forza né gli strumenti per poterlo fare come si deve. Cosa abbia scatenato questo turbinio di pensieri dolorosi non so dire, fatto sta che di colpo mi son trovata sbalzata indietro nel tempo ai primi di settembre, a quando è avvenuta la fine che a tutto ha dato inizio e il dolore, l’impotenza, la frustrazione hanno avuto il sopravvento e il mio arto mancante ha cominciato a farsi sentire come se ancora fosse ben piantato al suo posto. A quel punto è subentrata anche la vergogna e il pudore perché no, non si può soffrire tanto per una persona che si è comportata così, perché no, non vale la pena, perché no non si può stare così male dopo tanto tempo, perché no perché no perché no. Eppure avrei voluto urlare, avrei voluto piangere, avrei voluto crollare invece di far finta di nulla, di alzarmi la mattina perché si deve andare al lavoro, di fare e disfare scatoloni perché devo lasciare la vecchia casa, di comprare mobili e cose perché se qualcuno venisse in visita vuoi forse che manchi all’appello un qualche ammennicolo di fondamentale inutilità? Mi sono osservata agire mentre la parte più nascosta di me gesticolava cercando di attirare l’attenzione del mondo, la mia per prima, senza ottenere altro che un vago cenno di riconoscimento. Poi più nulla. Nel frattempo il numero degli scatoloni è diminuito, la casa ha preso forma e mi son ritrovata a dover semplicemente vivere ed è stato in quel momento che mi son resa conto che mi mancava la capacità di farlo, non perché fosse sparita nel frattempo, ma più semplicemente perché non l’avevo mai posseduta. Mi son guardata intorno e non avevo più alibi e la mia solitudine, il mio isolamento dal mondo mi si sono parati di fronte in tutta la loro maestosa crudeltà. Passo i fine settimana chiusa in casa da sola, nel migliore dei casi a guardare serie tv, nel peggiore a trattenere le lacrime. Non c’è nulla che mi piacerebbe fare, perché tutte le cose che mi piaceva fare sono abitate dai fantasmi dell’arto che non c’è più e come tali sono foriere di vampate di dolore così violente da essere quasi insopportabili. Sono diventata una campionessa nei bilanci esistenziali, e sono in decisa perdita in ogni campo conosciuto della vita, dall’amore all’amicizia alla semplice sopravvivenza. Ho scoperto che tutti hanno uno straccio di mondo nel quale muoversi, mentre io mi aggiro in un vuoto pneumatico che mi risucchia ogni istante che passa e dal quale non so come uscire. Mi sento sbagliata, mi sento inadeguata, mi sento inutile, mi sento sporca, mi sento brutta, mi sento cattiva, mi sento lamentosa, mi sento petulante, mi sento egoista, mi sento piagnucolosa, mi sento stupida, mi sento estranea a tutto e a tutti. E mi sento morta dentro al punto da desiderare di farla finita senza avere però il coraggio di farlo davvero, la qual cosa non fa che aumentare il mio senso di inadeguatezza. Una volta sapevo scrivere, adesso invece mi fa fatica mettere due parole in fila, forse per un analfabetismo di ritorno legato al fatto che sono mesi che non leggo una sola riga, quindi mi scuso per la confusione e gli errori di sintassi, di ortografia e per ogni altro difetto si possa incontrare in queste righe. E mi scuso per il silenzio dal quale non riesco a uscire se non per il tempo necessario a scrivere queste sconclusionate frasi, perché quel silenzio è l’unica imbracatura che ancora riesce a tenere in piedi i pezzi di me che ancora camminano per i corridoi di un posto che mi pare una prigione e per le strade di una città che odio».

Inutilmente penso a te…

«Penso a te nel silenzio della notte, quando tutto è nulla,
e i rumori presenti nel silenzio sono il silenzio stesso,
allora, solitario di me, passeggero fermo
di un viaggio senza Dio, inutilmente penso a te.
Tutto il passato, in cui fosti un momento eterno,
è come questo silenzio di tutto.


Tutto il perduto, in cui fosti quel che più persi,
è come questi rumori,
tutto l’inutile, in cui fosti quel che non doveva essere,
è come il nulla che sarà in questo silenzio notturno.

Ho visto morire, o sentito che morirono,
quanti amai o conobbi,
ho visto non saper più nulla di quelli che un po’ andarono
con me, e poco importa se fu un’ora o qualche parola;
o un passeggio emotivo e muto,
e il mondo oggi per me è un cimitero di notte,
bianco e nero di tombe e alberi e di estraneo chiardiluna
ed è in questa quiete assurda di me e di tutto
che penso a te».

Fernando Pessoa